Racalmuto

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“Lei è di Racalmuto? Il paese di Sciascia?”. Quante volte negli anni mi è accaduto di sentirmi rivolgere questa domanda.
Un po’ di geografia, innanzitutto. Racalmuto è un paese di novemila abitanti dell’entroterra siculo, a venticinque chilometri da Agrigento. Terra di agricoltura e di miniere di salgemma e di zolfo, Racalmuto è la Sicilia più vera e più dura. Nulla a che vedere con quella un po’ oleografica di Andrea Camilleri e del suo commissario Montalbano. Questa è Sicilia aspra, Sicilia dove d’inverno fa freddo. Questo è il paese dove sono nato e dove ho vissuti i primi dieci anni della mia vita. Il paese di Leonardo Sciascia.
Dopo l’infanzia, mi sono trasferito a Sciacca, ottanta chilometri di distanza, ma un’altra Sicilia quasi. Cittadina più grande, spumeggiante, sul mare, spagnoleggiante direi. E dopo il Liceo classico, il grande salto. Milano, l’università Bocconi, il Nord che mi sembrava così lontano e differente, l’ambizione di poter realizzare i propri sogni. Sì, perché dovete immaginarla quella Sicilia, la Sicilia degli anni Settanta, dove la palude della sottocultura clientelare e mafiosa era ancora più asfissiante e radicata… Tanto rispetto per chi aveva voglia di rimanerci, ma, l’avete già capito, quel mondo cominciava a starmi un po’ stretto.
A Milano, però, il vostro candidato si rende conto ben presto che la corruzione, il clientelismo, la mafia non sono un affare solo siciliano e che i legami tra certi ceti politici e le organizzazioni criminali non conoscono steccati, non hanno limitazioni geografiche. È proprio l’impegno contro il malaffare e la mala politica che mi porta, qualche anno dopo, al circolo Società Civile e da lì nella redazione del glorioso mensile omonimo.
È in questa veste che si consuma lo strappo ideale tra me e il mio più illustre concittadino, il grande scrittore e intellettuale. Erano i tempi della nota polemica sui “professionisti dell’antimafia”, nata appunto da un articolo di Sciascia sul “Corriere della Sera”. E che proprio il Grande Scrittore che aveva contribuito a far crescere la coscienza civile di generazioni di giovani siciliani fornisse supporto ideologico (volente o nolente) alla “palude”, mi sembrava intollerabile.
Debbo dire che il Grande Racalmutese, in realtà, l’ho incontrato solo un paio di volte e proprio a Milano, partecipando, giovane timoroso, a casa di comuni conoscenze, a serate conviviali a cui partecipavano anche persone del calibro di Vincenzo Consolo.
Chiacchiere a volte accalorate, con Sciascia, con gli occhi a fessura e la perenne sigaretta in mano, che classificava i fatti spesso solo con un profondo “si capisce” o “ non si capisce”.
Col tempo mi sono riappropriato del mio rapporto con Sciascia, con Racalmuto, con la Sicilia: fanno parte di me intensamente, intimamente e mi piace tornare, ritrovare odori, sapori, colori.
L’anno scorso il consiglio comunale di Racalmuto è stato sciolto per mafia e poco dopo la giunta regionale lombarda è caduta, travolta dagli scandali e dai rapporti con la criminalità organizzata. Ecco perché credo che io, siciliano che ha vissuto la gran parte dell’esistenza a Milano, candidandomi in Lombardia possa continuare con coerenza il percorso di una vita.

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Questione morale

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La questione morale nasce ai tempi di Enrico Berlinguer e del suo Pci. E passati gli anni possiamo dirlo in tutta tranquillità: come arma di battaglia politica paga molto poco, in Italia. Se no non ci saremmo sorbiti vent’anni di Berlusconi e quasi altrettanti di Formigoni. A cui si aggiunge oggi un candidato come Roberto Maroni, al vertice della Lega Nord anche ai tempi di Francesco Belsito e delle allegre spese della Famiglia Bossi.
Non sarebbe proponibile. Semplicemente, se la questione morale avesse la giusta presa gli elettori si sarebbero stretti nelle spalle, avrebbero girato lo sguardo in un’altra direzione e avrebbero lasciato queste persone fuori dai giochi. Perché il pallino, non ci si può nascondere, lo hanno in mano proprio gli elettori. Che poi siamo noi. Senza i nostri voti, in politica non si entra.
Però le battaglie vanno fatte perché sono giuste, non solo perché pagano in termini elettorali. E quella della questione morale è una battaglia sulla quale non si possono avere incertezze. A me sta a cuore non perché sono un nostalgico, ma appunto perché è uno scontro valido ancora oggi. Anche se non è popolare, se non porta voti e consensi.
Si dirà: e allora, Beppe Grillo? È vero, Grillo raccoglie consensi parlando dei ladri, dei politici che devono andare a casa. Ma tutto è mosso da un senso di rancore che mentre distrugge non sa proporre. Invece la questione morale della quale parlava Berlinguer era un’altra cosa. Non aveva quella componente “cattiva”, anche se forse comprensibile, che c’è oggi. Era un manuale ideale che indicava come deve comportarsi un politico. Rendeva chiaro come non si potessero coltivare interessi personali o degli amici. Ma occorresse pensare solo alla cosa pubblica, che fosse la Regione e l’intero Paese. Insomma: non regole imposte da fuori, ma un atteggiamento che doveva diventare sorgivo e partire da dentro.
Lo so, quando si dicono parole così tutti sono d’accordo. In teoria. Poi vediamo, nella pratica quotidiana, che tutto questo non è scontato. Tanti, troppi perseguono interessi personali, non sempre leciti. Tanti, troppi si occupano di tutelare consorterie e clientele. Occorre quindi esigere che quando uno si candida la sua unica preoccupazione riguardi cosa può fare per il Paese. E che la base di partenza sia il disinteresse per eventuali vantaggi personali. Non solo propri: occorre allo stesso modo che anche coloro che gli sono legati – famigliari, amici – vengano tenuti digiuni da favori.
È giunto il momento di riaffermare queste “banalità”. Di dire che vogliamo una Regione e un Paese diversi, dove chi fa politica non si propone come un affarista, dove il “familismo amorale” – e cioè la difesa del proprio clan, della propria famiglia – è un reperto del passato. Deve passare lo schema: una volta eletto porto avanti un impegno nelle Istituzioni, ma consapevole che la regola deve essere il ritorno, a fine mandato, al lavoro che facevo prima. Senza aver cercato nel frattempo quei privilegi che il ruolo potrebbe offrire.
Ripartiamo da queste “banalità” che garantiscono il ricambio. Ripartiamo da una concezione diversa della politica che unisca onestà e competenze. E probabilmente la Lombardia sarà un posto diverso, centrale per l’Italia, a sua volta un Paese diverso. Perché sarebbe auspicabile che destra e sinistra abbiano la stessa concezione dello Stato. E poi, su questa base comune, continuare a mantenere le loro differenze.

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Palle

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Le palle. Nel senso di panzane, di ami per abbindolare chi ci casca. In campagna elettorale, si sa, c’è la tendenza a spararle grosse. Roberto Maroni si è presentato in splendida forma, da questo punto di vista, e seguendo l’andazzo generale ha fatto diventare il perno della sua campagna elettorale la storia – anzi no: la vera e proprio palla – del 75% di tasse lombarde trattenute in Regione che, chissà perché, riusciranno a fare arrivare in orario i treni.
Che i treni possano arrivare in orario è senz’altro una buona cosa. Soprattutto in una regione che fuori dalle città più grandi ha territori molto popolosi, territori da cui vengono i lavoratori che ogni giorno fanno avanti e indietro tra casa e ufficio. Ma il tentativo di trattenere il 75% delle tasse non c’entra niente con i problemi dei pendolari (che non sono solo gli orari rispettati, ma anche la complessiva distribuzione dei treni e la loro qualità, per citare altri due temi tra tutti quelli possibili parlando di trasporto).
Una delle tante caratteristiche delle palle è che sono diseducative. Forse funzionano come slogan momentanei, ma alla lunga, e neppure così alla lunga, impediscono di guardare davvero alla realtà, sviliscono ogni discorso e rendono impossibile capire come stanno davvero le cose per poi cambiarle. A volte sono semplicemente inattuabili. Altre volte si basano su vere e proprie falsità.
Partiamo dal metodo: nel caso del 75%, ad esempio, la Costituzione Italiana non sembra essere poi tanto d’accordo. Garantisce infatti a tutti i cittadini italiani gli stessi diritti civili e sociali nel ricevere i servizi per i quali pagano le imposte. La proposta quindi – nel non auspicabile caso di una vittoria di Maroni, nell’ancor meno auspicabile caso che venisse davvero avanzata, cosa che tuttavia difficilmente accadrà – non supererebbe la prova della Corte Costituzionale e verrebbe immediatamente cancellata.
Passiamo poi al merito: quante sono le tasse lombarde che, a oggi, restano sul territorio? Secondo i dati della Banca d’Italia sono, be’, il 78%, stando agli ultimi dati rilevati, comprensivi di interessi. E con questi soldi la Regione deve garantire le spese primarie, che sono: le spese per prestazioni sociali, le spese correnti, gli investimenti in beni e servizi a beneficio dei cittadini e delle imprese lombarde. O crediamo a Roberto Maroni o crediamo alla Banca d’Italia. Oppure hanno ragione entrambi e il candidato leghista vuole rendere a “Roma ladrona” il 3% di tasse…
Quindi, la palla in questione non può andare in buca. Assomiglia di più a un palloncino che lascia andare l’aria e si sgonfia. Vale la pena saperlo prima ed evitare di cascarci, invece che lamentarsi dopo e scoprire che dietro la palla non c’era niente. Che non era stato predisposto nessun piano b perché, semplicemente, non era mai stato predisposto neppure il piano a. A cosa servono i piani, o per meglio dire i progetti, se non si ha un’idea di crescita e di cambiamento veri?
La strada della Lega non è quella giusta per la Lombardia. Piuttosto, occorre riprendere in mano i bilanci, risanarli, inseguire i mille rivoli che prosciugano il budget, tappare le falle. Imparare, con coscienza e buon senso, a dire no. Insomma, impiegare nella maniera corretta le risorse. Cosa che non ci si può aspettare da chi si pone in perfetta continuità con i diciassette anni di governo precedenti, pronto a garantire i garantiti, che a loro volta sono pronti ad aderire alla nuova parte politica, che in questo caso è esattamente la stessa parte politica di prima. Per non cedere di un passo i privilegi.

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Omicron

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“Tremila aderenti a organizzazioni criminali arrestati negli ultimi tre anni. Più di trenta le grandi operazioni anticlan effettuate dalle forze dell’ordine. Circa centoventi pentiti gestiti da magistratura e polizia. Tutto questo non succede in Sicilia, Campania o Calabria… ma nella ricca e civilissima Milano”. Dirlo oggi è scontato, ma non lo era affatto nel momento in cui ho scritto questo testo: gennaio 1997, editoriale di apertura della prima newsletter di “Omicron”, l’Osservatorio sulla criminalità organizzata al Nord che ho fondato insieme a Gianni Barbacetto e a un gruppo di giornalisti e ricercatori, alcuni provenienti da Società civile (vedi).
Ho recuperato il primo numero di “Omicron” – che oggi continua a esistere e a lottare insieme a noi su internet e con altra struttura all’indirizzo www.omicronweb.it – da uno scaffale impervio. Rileggendolo, lo confesso, provo l’inevitabile orgoglio di avere scritto con quindici anni di anticipo quello che penne ben più autorevoli e specializzate sembrano avere scoperto solo oggi, per non parlare di sindaci, prefetti, ministri dell’Interno nordici fino al midollo… e cioè che a Milano la mafia, e in particolare la ’ndrangheta (vedi) esiste, e avevamo tutti gli strumenti per accorgercene (e intervenire) molto tempo fa.
Ma alla soddisfazione privata del “ve l’avevo detto” si accompagna la rabbia pubblica per il tanto tempo che si è perso. “Omicron” in quegli anni era una voce isolata, e mentre nelle aule bunker di mezza Lombardia si celebravano maxiprocessi con centinaia di imputati legati soprattutto ai clan calabresi, nessuno o quasi riteneva importante o almeno interessante cercare di capire che cosa era la presenza mafiosa. E di capire se quelle centinaia di imputati chiusi nelle gabbie, al di là dei reati per cui venivano giudicati, non fossero ormai diventati un pezzo della società, dell’economia e della politica lombarda, e non la stessero condizionando più di quanto si potesse immaginare. Così gli anni sono passati, i clan hanno assorbito il colpo delle pesanti condanne a boss e soldati “storici” e hanno consolidato il loro potere, nei cantieri dell’edilizia come in certi consigli comunali.
Quindici anni dopo quel primo editoriale, “Omicron” continua a essere una preziosa fonte di informazione sui fatti di mafia, libera e gratuita, a disposizione di tutti su internet. Con mezzi limitatissimi, fa luce anche su quelli che Nando dalla Chiesa definisce i “coni d’ombra” dove la mafia lombarda prospera: le cittadine dell’hinterland di Milano, i paesi della Brianza e del Varesotto… posti spesso giudicati poco “sexy” dalla grande informazione, ma che rappresentano la vera base del potere, della ricchezza e del consenso della ’ndrangheta lombarda.
Un piccolo ricordo personale, all’uscita Omicron fu salutato come “il foglio rosa dell’antimafia”, caratterizzandosi anche visivamente come quel rude bollettino in carta salmonata che mensilmente veniva distribuito agli “addetti ai lavori” e agli interessati.
Ebbene, nessuna raffinata strategia di marketing e di comunicazione, dietro il “foglio rosa dell’antimafia”. Molto più banalmente, dopo una interminabile nottata per chiudere il primo numero con Gianni Barbacetto, Simona Peverelli e pochi altri, la mattina successiva, a poche ore dalla presentazione alla stampa a Palazzo Marino, l’unica carta che avevo a disposizione per fotocopiare i numeri da distribuire era rosa!
Fummo poi costretti per anni a cercare in maniera rocambolesca la carta rosa per tener fede all’immagine che si era casualmente creata.

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’Ndrangheta

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È il 21 gennaio 2010 quando il prefetto Gian Valerio Lombardi tranquillizza a mezzo stampa tutti gli abitanti della regione, dal Ticino al Garda: “A Milano e in Lombardia la mafia non esiste”, fa filtrare alle agenzie di stampa durante l’audizione a porte chiuse davanti alla Commissione parlamentare antimafia, in trasferta nella capitale del Nord. “Sono presenti singole famiglie”, continua, ma “ciò non vuol dire che a Milano e in Lombardia esista la mafia”. Scoppia la polemica, naturalmente – certi notabili della Dc siciliana dicevano le stesse cose, ma cinquant’anni fa – e dopo un paio di giorni anche il sindaco Letizia Moratti dice la sua: “Io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata”. La parola mafia, per la classe dirigente che comanda a Milano, continua a essere un tabù, proprio come lo era nella Sicilia della mia infanzia. La Sicilia dove scendevano le troupe dei telegiornali e puntavano la telecamera in faccia al vecchietto seduto al bar dove avevano appena ammazzato qualcuno. “La mafia? Ma quale mafia?”, rispondeva lui, e il servizio era fatto: l’ennesima dimostrazione dell’omertà, della rassegnazione, della connivenza con boss e picciotti. In Lombardia accadeva la stessa cosa, ma al posto del vecchietto davanti al bar di paese c’erano i vertici istituzionali della Milano del terzo millennio.
Sei mesi dopo le parole del prefetto e del sindaco, il 13 luglio, sarebbe scattata l’operazione Crimine-Infinito. La più grande retata contro la ’ndrangheta della storia d’Italia, con oltre trecento arresti, di cui 160 in Lombardia. L’inchiesta condotta dalle procure di Reggio Calabria e Milano, con la sua mole di filmati, intercettazioni, documenti sequestrati, dà l’ennesima conferma che in Lombardia la mafia esiste. Esiste non perché ci sono delle singole famiglie, come sosteneva il prefetto Lombardi, ma come organizzazione strutturata e radicata. L’inchiesta scopre tra l’altro nella nostra regione 16 “locali”, come dire “filiali” della ’ndrangheta: Milano, Cormano, Bresso, Desio, Pioltello, Limbiate, Seregno-Giussano, Erba, Canzo, Mariano Comense, Rho, Bollate, Legnano, Solaro, Corsico, Pavia. L’inchiesta Crimine-Infinito, ancora, dimostra che la criminalità organizzata citata dal sindaco Moratti altro non è che mafia a tutti gli effetti, e più precisamente ’ndrangheta (e comunque in Lombardia esistono anche Cosa nostra, camorra, criminalità pugliese), perfettamente integrata con la “casa madre” calabrese.
I 160 arresti della Procura di Milano smentirono clamorosamente il prefetto e il sindaco, ma il punto non è neppure questo. Il punto è che in Lombardia le mafie esistono e sono radicate da almeno sessant’anni. Nei soli anni Novanta l’allora neonata Direzione distrettuale antimafia di Milano ha arrestato circa tremila persone legate a organizzazioni mafiose, e ben prima delle parole del sindaco e del prefetto la presenza mafiosa nella nostra regione e nella sua “capitale” era documentata nelle relazioni della Commissione parlamentare antimafia, della Direzione nazionale antimafia e così via. Tutti testi che dei pubblici amministratori di quel livello non potevano non conoscere.
Non potevano non conoscerli loro perché li conoscevamo noi, e da tempo. Erano i primi anni Novanta quando su Società civile (vedi) scrivevamo inchieste di copertina sui clan mafiosi che in certi quartieri di periferia esercitavano un vero e proprio controllo del territorio, nel silenzio complice della politica che di lì a poco sarebbe stata travolta da Tangentopoli. Un impegno continuato con “Omicron”, l’Osservatorio sulla criminalità organizzata al Nord (vedi) e con la casa editrice Melampo. Che tra gli altri titoli ha pubblicato Mafia a Milano. Sessant’anni di affari e delitti (di Mario Portanova, Giampiero Rossi e Franco Stefanoni), che in oltre 400 pagine racconta una storia che in troppi non hanno voluto vedere.

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Milanesità

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Gli amici nati a Milano mi dicono spesso che sono molto più milanese di loro. Un modo per prendermi in giro, per giocare sul fatto che, essendo siciliano, lo stereotipo imporrebbe una certa renitenza al lavoro e all’azione. Ovviamente #sischerza, come si dice su Twitter, ma è vero che a Milano mi sono ambientato in fretta. Sono arrivato dalla Sicilia quando avevo diciannove anni per iscrivermi all’università, poi ci sono rimasto: qui vivo, qui lavoro, qui ho messo su famiglia. A oggi sono molti più gli anni passati in Lombardia di quelli siciliani. E il merito, se un merito c’è nel riuscire ad ambientarsi e nel sentirsi a casa, è anche nelle caratteristiche della città di approdo. Perché Milano avrà pure un sacco di difetti, ma ti carica di energia e ti dà il senso della possibilità.
A Milano ho stretto legami con moltissime persone e ho lasciato che mi attecchisse addosso, quasi una seconda pelle, la milanesità, vale a dire quella voglia di fare e di costruire e di guardare al futuro con ottimismo. Un’attitudine che si è un po’ appannata negli ultimi anni, per tutti.
Milano, ammettiamolo, è innanzi tutto lavoro. Milano è la terra dell’opportunità, una città aperta, lo storico crocevia dove popolazioni diverse si sono incontrate, e continuano a incontrarsi, per costruire. “Milano a portata di mano, ti fa una domanda in tedesco e ti risponde in siciliano”, cantava Lucio Dalla nel 1979, giusto l’anno del mio arrivo in questa città.
Milano per me non è la macchietta del panetùn o di “Oh mia bela Madunina”, ma l’unica vera città europea d’Italia (“Milano vicino all’Europa”, per continuare a citare Dalla). E mentre, ad esempio, città come Roma, Bologna, Napoli e Firenze sembrano appartenere a chi ci è nato, Milano dà l’idea di essere di chi ci vive, ci lavora, ci costruisce. È vero che il cognome più diffuso è ancora Rossi, ma segue a ruota il cognome Hu, non propriamente meneghino… Sembra incomprensibile, a volte, che una città così cosmopolita si sia fatta abbagliare da un truce leghismo che pretende di fondare le sue basi su ridicole, inconsistenti e folkloristiche radici celtiche. La milanesità non è gretto localismo, è un’altra cosa. E potrei spacchettarla come progettualità, opportunità, voglia di fare e cultura del lavoro.
La milanesità è, da sempre e sopra ogni cosa, la certezza di un futuro migliore, per noi e per i nostri figli. Da tempo tutto questo si sta però perdendo. La crisi economica ha segnato il territorio a fuoco, sia a Milano sia nel resto della Lombardia. E la miseria dei modelli culturali che hanno imperato negli ultimi lustri ha fatto il resto. La politica poi ha svolto un ruolo nefasto: complice il quadro nazionale, a livello locale è mancata non solo la voglia e la capacità di costruzione di progettualità, ma anche la semplice buona amministrazione. Ci vuole ancora un grande impegno per ripartire. Giuliano Pisapia è stato eletto sindaco sotto il segno di una grande partecipazione e di una altrettanto grande gioia civile, con cortei per le strade di persone politicamente entusiaste, come non se ne vedevano da anni. Adesso sembra arrivato il momento di fare un ulteriore passo. C’è bisogno di rinnovamento, di facce nuove, di uno slancio che può arrivare dalla vittoria di Umberto Ambrosoli. C’è bisogno di tornare ad avere voglia di futuro.
All’inizio della mia vita milanese facevo un po’ fatica a cogliere il significato dell’espressione “portarsi avanti”. Poi l’ho capito. È una filosofia di vita, è il contrario del vivere alla giornata, è positività e desiderio di futuro, è voglia di progettare e costruire qualcosa di duraturo. Ho interiorizzato questo concetto e ho fatto mia questa filosofia. Ecco cosa vorrei: che Milano e la Lombardia riprendessero a “portarsi avanti”!

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Lombardia

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Europa, sviluppo, lavoro e legalità. Sono questi i cardini della Lombardia di Umberto Ambrosoli. E al centro di tutto l’occupazione, che deve progredire sensibilmente. Altrimenti è difficile che il resto possa funzionare.
Nel programma di governo viene sottolineata l’esigenza di una forte discontinuità con il passato, che è il presupposto al cambiamento. La Lombardia di Ambrosoli sarà una regione trasparente, dove verrà compiuto ogni sforzo per liberare le energie private e pubbliche che le permettano di avere il ruolo che le compete. Si tratta di una delle cinque aree più importanti d’Europa e questo non deve rimanere in ombra.
Gli strumenti cui mettere mano in prima battuta sono quelli dell’apprendistato e dei tirocini, che devono essere seguiti e aggiornati con incentivi che permettano a queste tipologie di contratto di trasformarsi in vera occupazione. Sull’apprendistato Regione Lombardia può diventare riferimento nazionale, sulla traccia di quanto già sperimentato in altri Paesi: lì centinaia di migliaia di giovani sono assunti a tempo indeterminato tramite questo canale, canale che consente un reclutamento cristallino, senza connivenze e favori, basato solo sulla prova che di sé riesce a dare il candidato.
Ma non ci sono solo i giovani. Con la riforma Fornero diventa infatti necessario pensare anche a nuove politiche per gli over 50 e gli over 60, politiche che prevedano un mix fra riduzione delle ore lavorate, assunzione di giovani e gestione delle ore con un trattamento previdenziale.
Occorre inoltre mettere in comunicazione domanda e offerta di lavoro guardando a quanto è stato fatto in Francia con le agenzie di servizi alla persona e nei Paesi scandinavi, dove sono stati attivati servizi di fornitura di prestazioni personali in forma di collaborazione autonoma e continuativa gestiti da Comuni e Province.
Per quanto riguarda la sanità, la ristrutturazione dei servizi deve passare attraverso la personalizzazione, quindi avere le persone come punto di riferimento, secondo criteri di accessibilità e di equità. Non una sanità-azienda, quindi, ma una sanità umana. Mentre in campo educativo è fondamentale ripensare alla distribuzione delle risorse pubbliche di sostegno allo studio. Il buono-scuola per gli studenti delle paritarie deve tenere conto del reddito famigliare. Solo così diventerà una reale forma di aiuto per le famiglie a basso reddito.
Questa Lombardia che verrà – con l’impegno di oggi, con il lavoro di domani – la sento molto vicina a me e alla mia storia personale.
Il mondo del lavoro e le battaglie per legalità sono infatti i due aspetti sui quali mi impegnerò: credo di conoscerli bene, da un lato stante il mio percorso manageriale e dall’altro per quello di informazione e sensibilizzazione sui temi della società civile. L’approdo in politica di persone esterne ai partiti assume valore nel momento in cui le esperienze personali possono essere di aiuto alle istituzioni.
Bisogna far sì che tra la politica, la società civile, le istituzioni, il ricambio sia continuo. Cercando di evitare i dilettantismi, ma senza per questo cristallizzare mali o creare sistemi di potere eterni e inamovibili.
La politica, ricordiamolo, è servizio per il bene comune. Ridiamo questa Regione alle persone normali. Otterremo così una Regione finalmente normale.

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Impresa

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Mi sono laureato a metà degli anni Ottanta. Si trattava di un periodo di forte cambiamento per l’Italia: l’istituzione del comparto industriale iniziata massicciamente a partire dal secondo Dopoguerra arrivava a compimento, la crescita del terziario era molto significativa e infine si verificava uno sviluppo degli ambiti bancario e assicurativo del tutto inedito. Studiare economia e ragionare su questi temi era per i miei compagni e per me l’occasione non solo di predisporsi all’ingresso nel mondo del lavoro, ma anche di cercare una maggior comprensione del clima del Paese in cui stavamo vivendo, dotandoci di strumenti che forse potevano rivelarsi utili.
In quegli anni la parola impresa aveva un significato solo. Si trattava di un’attività economica più o meno grande, che poteva operare in un settore o nell’altro, e la maggior parte di noi ci avrebbe cercato un impiego, alcuni altri invece avrebbero provato a mettere in piedi la propria, di impresa, con tutte le difficoltà del caso. Ma con difficoltà che, messe in conto, si sarebbero potute anche affrontare. Il clima era buono, le possibilità c’erano.
Oggi invece il significato della parola impresa, per i giovani e anche per i meno giovani, è quello più comune, quello suggerito dalla frase “fare un’impresa”. Soprattutto se il tema di cui si parla è il mondo del lavoro. Sembra infatti un’impresa trovare occupazione, figurarsi provare in proprio, mettendo in gioco le proprie intuizioni, il proprio talento e le proprie competenze. Sembra una partita persa in partenza, e l’impresa non la si tenta neanche. Il clima pesantissimo della recessione ormai pluriennale non solo ci fa stentare ogni giorno, ma toglie anche ogni prospettiva di futuro.
E naturalmente le cose, messe così, non possono andare. Impresa, che vuol dire lavoro, deve tornare nell’ambito dell’economia, e lasciare quello degli sforzi di Ercole, perché tanto non ce li possiamo permettere. Come si fa? La Regione, soggetto in questo senso decisivo, deve saper lavorare in maniera corretta e proficua sui bandi europei, affiancando risorse internazionali e nazionali per creare nuove occasioni di sviluppo e di formazione. Perché il lavoro parte dal saper fare il lavoro stesso, e saper fare il lavoro stesso poggia sulle competenze acquisite con la formazione, sia che si sia giovanissimi sia che non lo si sia più e si debba ripartire. Inoltre un compito che la Regione può e deve assumersi è quello di un ragionamento ampio sull’accesso al credito, con forme di compartecipazione che partano da una valutazione seria delle progettualità. E ancora, la Regione deve garantire bandi di finanziamento che si basino su regole chiare e su commissioni di giudizio che si esprimono in maniera cristallina.
Impresa, in Regione Lombardia, deve quindi essere una cosa: il trasformatore delle energie potenziali nella concretezza di una realizzazione che si fa occupazione. Le energie ci sono, spetta alla politica, per una volta, fare l’impresa. Di far fare impresa e favorire l’occupazione. Ripartendo, finalmente.

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Grillo

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Quando si cita Grillo io non penso a Beppe, ma a uno che porta lo stesso cognome e ha un nome che è una promessa.
Salvatore Grillo è uno dei più grandi personaggi di Milano, della Lombardia. E per chi non lo conosce: è un problema suo.
Dirigente della Bocconi e da sempre responsabile e delle politiche di diritto allo studio e dei rapporti con gli studenti, è direttore del Pensionato universitario dal 1970. Ha visto passare da quelle stanze migliaia di studenti e diverse generazioni di “futura classe dirigente”: oggi ministri, sottosegretari, amministratori delegati e presidenti di multinazionali, banche, istituzioni economiche e finanziarie italiane e internazionali, politici, professionisti…
Battuta sempre pronta, provocatore nato, linguaggio pirotecnico, lui, Grillo, è sempre stato una presenza preziosa e stimolante. Paradossale che ai tempi dell’estremismo di sinistra passasse per un agente della reazione e che oggi molti lo chiamino “il compagno Grillo”, quando lui si lamenta con la consueta assenza di pacatezza del moderatismo degli attuali studenti.
Da rappresentante degli studenti del Pensionato Bocconi – nei primi anni Ottanta – ho avuto con lui scontri (verbali, s’intende) senza esclusione di colpi, e a distanza di anni ne ridiamo insieme. Perché nel frattempo lui li ha raccontati in un delizioso libro di memoria, Via Bocconi 12 (questo il titolo), e io, da editore, quel libro l’ho pubblicato con il marchio Melampo, anzi l’ho proprio voluto insieme agli altri ex “contestatori” del Pensionato, amici di ieri e di sempre, tra cui Jimmy Carocchi, compagno di mille strade condivise.
Continua a rinfacciarmi (ma se ne bea raccontandolo) di un manifesto da me scritto con un incipit folgorante, ma invero poco elegante: “Caro dottor Grillo, Lei è un coglione”. Sono passati circa trent’anni, ma non perde occasione per rinfacciarmelo divertito.
Siamo rimasti sempre in contatto. Anzi lui, cattolico militante (meglio: cristiano, come preferisce dire), mi coinvolge di tanto in tanto in alcune delle sue innumerevoli iniziative di impegno sociale. La messa di Natale al carcere di San Vittore da qualche anno è diventata per me (e grazie a lui) un impegno ineludibile.
“Stare con i giovani non è un lavoro, è una vocazione, è una questione di cuore”, scrive nel suo libro. E parlando del suo spirito di servizio: “Io sono quella roba lì: un cameriere, una persona al servizio degli altri”. Quando gli si accenna timidamente alla possibilità che qualcuno, prima o poi, gli chieda di ritirarsi dal lavoro, risponde con le parole che ha usato nel libro: “la mia preoccupazione piuttosto riguarda le autorità accademiche di domani. Temo che non capiscano e pensino di liquidarmi mandandomi in pensione. No, io voglio morire qui; in caso contrario saranno responsabili di omicidio perché per me lasciare la Bocconi vuol dire morire e siccome anche loro dovranno morire dovranno fare i conti con il Padre Eterno che gliela farà pagare cara con l’inferno”.
Per me è da sempre un uomo affascinante, un uomo che fa tanto per gli altri senza ostentarlo e senza mostrare il potere che pure amministra. Lo apprezzo anche quando si diverte a prendermi in giro dicendomi: “tu non puoi capire, noi cristiani abbiamo un vantaggio su di voi: abbiamo l’eternità”.
E ogni tanto, quando preso dal mio razionalismo cerco di capire e di spiegare tutto, mi viene in mente lui e una sua frase di sempre: “La vita è mistero”.

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Formigonismo

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Ha attraversato la Prima e la Seconda Repubblica. Incontrastato Presidente della Regione Lombardia dal 1995, Roberto Formigoni per quasi vent’anni ha governato una delle regioni più ricche d’Europa e costruito un sistema di potere forte e spregiudicato, giunto ora al capolinea.
Anni in cui è stato stravolto il sistema sanitario lombardo, in cui la prestigiosa sanità pubblica è diventata affare per privati, danneggiando “il patrimonio di reputazione costruito dal lavoro di generazioni di medici e infermieri, di impiegati e di tecnici in camice bianco. Anni in cui è stata negata la complicità tra la ’ndrangheta e i vertici della sa­nità lombarda, garantendo invece le nomine di buoni amici dei clan calabresi alla guida di Asl” in città importanti della regione.
Ma è l’ultimo mandato, il quarto, segnato in un solo anno da continui scandali e numerose inchieste, che più di tutti sintetizza lo scempio: iniziato con le contestazioni sulla ineleggibilità dello stesso Formigoni; continuato con l’accertamento delle firme false già al momento della presentazione del suo “listino”; chiuso sotto i colpi del­le in­chieste giudiziarie che hanno coinvolto ben 13 consiglieri e con l’arresto dell’assessore alla Casa Zambetti per voto di scambio (ma ricordiamo che sono cinque gli assessori delle varie giunte Formigoni finiti in carcere con diverse accuse).
Al di là delle indagini ancora in corso e dei reati da dimostrare, resta nero su bianco l’eredità dell’era Formigoni. La sua cattiva amministrazione e le innegabili responsabilità, quanto meno politiche e di controllo, nell’uso discutibile del denaro pubblico: il Celeste è iscritto nel registro degli indagati per i buchi nei bilanci della Fondazione Maugeri e dell’ospedale San Raffaele; ha voluto la costruzione del nuovo Pirellone, il grattacielo più alto di Milano, costato 400 milioni di euro; ha ricevuto un avviso di garanzia per corruzione: il faccendiere Pierangelo Daccò gli avrebbe corrisposto tra il 2001 e il 2011 un valore di 8,5 milioni di euro in utilità. Ricordate? Le vacanze “di gruppo” senza giustificativi, dal capodanno ai Caraibi alla Pasqua in Costa Azzurra; lo sconto sulla villa in Costa Smeralda; i 3,7 milioni per gli yacht; i 500mila euro in ristoranti; i 600mila euro in finanziamenti elettorali… E intanto l’Italia sprofondava nella crisi economica e le imprese lombarde chiudevano una dopo l’altra.
Una crisi che al Pirellone evidentemente non veniva percepita, se ancora pochi mesi fa decine di consiglieri venivano indagati per uso improprio dei rimborsi regionali (soldi pubblici anche questi). Eppure lo stesso Formigoni continuava ad affermare: “Le indagini sono basate su un equivoco, non c’è nessun Batman in Regione Lombardia”.
Una difesa arrogante, la sua, di un sistema che mentre crollava trascinava con sé l’immagine delle istituzioni regionali. Un disfacimento simboleggiato proprio dal Formigoni pubblico degli ultimi tempi: capace di parlare di sé in terza persona davanti ai microfoni e persino di presentarsi nelle occasioni ufficiali con quel look hawaiano così poco rispettoso del suo alto ruolo istituzionale.
Ora è il tempo del decoro.

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