È il 21 gennaio 2010 quando il prefetto Gian Valerio Lombardi tranquillizza a mezzo stampa tutti gli abitanti della regione, dal Ticino al Garda: “A Milano e in Lombardia la mafia non esiste”, fa filtrare alle agenzie di stampa durante l’audizione a porte chiuse davanti alla Commissione parlamentare antimafia, in trasferta nella capitale del Nord. “Sono presenti singole famiglie”, continua, ma “ciò non vuol dire che a Milano e in Lombardia esista la mafia”. Scoppia la polemica, naturalmente – certi notabili della Dc siciliana dicevano le stesse cose, ma cinquant’anni fa – e dopo un paio di giorni anche il sindaco Letizia Moratti dice la sua: “Io parlerei più che di infiltrazioni mafiose di infiltrazioni della criminalità organizzata”. La parola mafia, per la classe dirigente che comanda a Milano, continua a essere un tabù, proprio come lo era nella Sicilia della mia infanzia. La Sicilia dove scendevano le troupe dei telegiornali e puntavano la telecamera in faccia al vecchietto seduto al bar dove avevano appena ammazzato qualcuno. “La mafia? Ma quale mafia?”, rispondeva lui, e il servizio era fatto: l’ennesima dimostrazione dell’omertà, della rassegnazione, della connivenza con boss e picciotti. In Lombardia accadeva la stessa cosa, ma al posto del vecchietto davanti al bar di paese c’erano i vertici istituzionali della Milano del terzo millennio.
Sei mesi dopo le parole del prefetto e del sindaco, il 13 luglio, sarebbe scattata l’operazione Crimine-Infinito. La più grande retata contro la ’ndrangheta della storia d’Italia, con oltre trecento arresti, di cui 160 in Lombardia. L’inchiesta condotta dalle procure di Reggio Calabria e Milano, con la sua mole di filmati, intercettazioni, documenti sequestrati, dà l’ennesima conferma che in Lombardia la mafia esiste. Esiste non perché ci sono delle singole famiglie, come sosteneva il prefetto Lombardi, ma come organizzazione strutturata e radicata. L’inchiesta scopre tra l’altro nella nostra regione 16 “locali”, come dire “filiali” della ’ndrangheta: Milano, Cormano, Bresso, Desio, Pioltello, Limbiate, Seregno-Giussano, Erba, Canzo, Mariano Comense, Rho, Bollate, Legnano, Solaro, Corsico, Pavia. L’inchiesta Crimine-Infinito, ancora, dimostra che la criminalità organizzata citata dal sindaco Moratti altro non è che mafia a tutti gli effetti, e più precisamente ’ndrangheta (e comunque in Lombardia esistono anche Cosa nostra, camorra, criminalità pugliese), perfettamente integrata con la “casa madre” calabrese.
I 160 arresti della Procura di Milano smentirono clamorosamente il prefetto e il sindaco, ma il punto non è neppure questo. Il punto è che in Lombardia le mafie esistono e sono radicate da almeno sessant’anni. Nei soli anni Novanta l’allora neonata Direzione distrettuale antimafia di Milano ha arrestato circa tremila persone legate a organizzazioni mafiose, e ben prima delle parole del sindaco e del prefetto la presenza mafiosa nella nostra regione e nella sua “capitale” era documentata nelle relazioni della Commissione parlamentare antimafia, della Direzione nazionale antimafia e così via. Tutti testi che dei pubblici amministratori di quel livello non potevano non conoscere.
Non potevano non conoscerli loro perché li conoscevamo noi, e da tempo. Erano i primi anni Novanta quando su Società civile (vedi) scrivevamo inchieste di copertina sui clan mafiosi che in certi quartieri di periferia esercitavano un vero e proprio controllo del territorio, nel silenzio complice della politica che di lì a poco sarebbe stata travolta da Tangentopoli. Un impegno continuato con “Omicron”, l’Osservatorio sulla criminalità organizzata al Nord (vedi) e con la casa editrice Melampo. Che tra gli altri titoli ha pubblicato Mafia a Milano. Sessant’anni di affari e delitti (di Mario Portanova, Giampiero Rossi e Franco Stefanoni), che in oltre 400 pagine racconta una storia che in troppi non hanno voluto vedere.