Società civile

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La Milano del 1985, ricordo, stava ricominciando a respirare dopo gli anni più tetri del terrorismo, ma una diversa cappa le impediva di sprigionare tutte le sue energie di capitale, economica e morale.
Quanti di noi si accorgevano di come la prassi cinica e scostumata con cui veniva condotta la lotta politica stava allontanando gli amministratori dai problemi dei cittadini? Quanti di noi percepivano una democrazia sempre più svuotata dei suoi valori e dei suoi principi costitutivi, a favore di un sistema con poteri ferrei e deboli contropoteri? Io di certo sentivo ristretti i miei diritti di cittadino, frustrate le aspirazioni a far valere le mie idee, trascurato l’entusiasmo che avrei voluto impiegare nel tentativo di far crescere sane, aperte, pulite forme di convivenza.
Per questo quell’autunno del 1985 in cui germogliò il Circolo Società Civile per me fu una specie di primavera. Avevo capito subito che da Nando dalla Chiesa e dai 100 fondatori (una ben strana compagine di magistrati come Gherardo Colombo e Piercamillo Davigo, giornalisti come Corrado Stajano, Camilla Cederna, Giampaolo Pansa, Carla Stampa, e poi sociologi e professori e manager, preti come Davide Maria Turoldo, e poi ancora insegnanti, operai, attori, persino un calciatore) non veniva il canto delle sirene del “qualunquismo”, del “giacobinismo”, dello “snobismo borghese”, come dicevano i politici di professione. No, non mi sono tappato le orecchie, anzi, mi sono rimboccato le maniche: eletto già nel primo consiglio direttivo (preferito io, studente della Bocconi, a un “professorone” della Bocconi), ho concorso al moltiplicarsi di incontri, convegni, seminari. Davvero “per dare voce alla società civile e fare più civile la società” (e mai slogan fu più aderente alle intenzioni!): fin dalla prima serata del 2 dicembre al Teatro Pier Lombardo, abbiamo portato centinaia di persone a parlare di giustizia, di angherie fiscali, di corruzione, della presa dei partiti sulle Municipalizzate, di uno sviluppo urbanistico viziato dall’interesse di pochi: chi possedeva aree edificabili e chi ci costruiva sopra il sistema delle mazzette. E anche di Milano come Palermo (“eresia!”, strillavano offesi quelli che stavano aprendo la porta agli affari della mafia).
Viene da lì una delle caratteristiche distintive della mia candidatura: la considerazione che ci sono battaglie che non possono essere “di parte”, che ci sono principi non negoziabili, che l’unione sui temi importanti deve andare oltre le meschine appartenenze di gruppo.
Poi è venuto il giornale, un mensile di inchieste e di opinioni. Rompemmo un tabù: «non si parla delle cose troppo lontane dal potere o di quelle vicine al potere e ai suoi misfatti». Per quasi dieci anni sul mensile “Società civile” ho tenuto una rubrica puntigliosa, faticosa, scomoda: “Diario milanese”, una costante rassegna dell’ignavia, delle magagne, delle ruberie della sconsolante Casta ambrosiana e dei suoi alleati sparsi nel mondo intellettuale, delle imprese, delle professioni.
Dei miei scritti, su Ligresti, sulla Lega, sulla mafia, tra le altre cose, o dei pezzi da “opinionista”, anche oggi sottoscriverei ogni riga. Perché mi accorgo che abbiamo detto tutto in anticipo e abbiamo contribuito in modo non secondario alla nascita e alla crescita della rivolta morale che accompagnò successivamente le fasi milanesi dell’inchiesta giudiziaria su Tangentopoli.
Ora che per la prima volta ho scelto un impegno politico diretto nella lista di Umberto Ambrosoli mi fa piacere ricordare che tra gli amici di Società civile ci sono stati anche sua madre Annalori e Silvio Novembre, il maresciallo della Finanza che fu al fianco di suo padre Giorgio nella coraggiosa, tragica partita contro Sindona e il malaffare.

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