Penso che il mio percorso di lavoratore sia stato finora un percorso fortunato: sono da sempre più che interessato, direi proprio appassionato alla carta stampata, in particolare ai libri, e sono finito, dopo essermi laureato alla Bocconi, dritto dritto nel mio campo d’elezione, all’Ipsoa (oggi Wolters Kluwers Italia), vale a dire una grande azienda di editoria professionale. E accanto alla fortuna si è da sempre collocata l’ambizione (condita con la giusta dose di olio di gomito): ho sempre divorato saggi e romanzi, finché una decina di anni fa sono passato a fare l’editore in prima persona. Vale a dire a selezionare, commissionare, produrre, stampare e promuovere i libri che mi piacciono. E che spero possano piacere (di più: che spero possano essere utili) ad altri.
In Ipsoa dal 1986 al 2001, dopo aver fatto la gavetta, ho ricoperto incarichi manageriali di ogni tipo, approdando al livello di dirigente nel 1991, e così gestendo fusioni, lanci di nuovi prodotti, riorganizzazioni, rapporti internazionali. Cercando di innovare sempre. E cercando sempre di conciliare gli obiettivi aziendali con il rispetto delle persone.
Arrivano poi dei momenti in cui si decide di cambiare vita. Allora mi ha tentato l’idea di intraprendere un’iniziativa del tutto personale, legata alla mia esperienza, certo, ma senza rete di protezione: quella di fondare e gestire un marchio mio. Sono passati più di dieci anni da allora e con Novecento Media mi occupo di editoria professionale, stavolta fuori dai grandi gruppi, e sempre nello stesso settore gestisco quella che fin dal 1933 è la storica libreria Pirola di via Cavallotti a Milano, rilevata dal “Sole 24Ore”. Proprio con il marchio Cavallotti University Press mi sono lanciato di recente nella produzione di testi universitari.
Business is business, certo, ma parte del mio tempo è dedicata, con lo stesso rigore e la stessa cura professionale, a quello che per me ha quotidianamente i contorni di un sogno. La parola è forte, se la si prende sul serio. Me ne rendo conto. Ma non è forse un sogno la diffusione di cultura o, in altre parole, la voglia di camminare nella società italiana e di aiutare altri a camminarci, pubblicare libri di Rita Borsellino, Gian Carlo Caselli, Attilio Bolzoni, Lella Costa, Pippo Civati, Livia Pomodoro, Enrico Deaglio, Leoluca Orlando e altri ancora?
Lo faccio dal 2004 con Nando dalla Chiesa e Jimmy Carocchi. È insieme a loro che ho costituito Melampo Editore, casa editrice votata ai temi della società civile. Casa editrice nostra ma aperta alla città, perché lo Spazio Melampo di via Carlo Tenca 7 è uno dei luoghi vivi del dibattito culturale cittadino. Si presentano i libri, ovviamente, ma ci si è commossi con l’esperienza dei lager della lombarda Ines Figini, indignati per la strage dell’amianto di Casale Monferrato con Romana Blasotti Pavesi, informati e formati con tanti esperti di mafia; si è parlato di genitorialità e calcio, stragi di stato e pornografia, carcere, immigrazione, finanza, televisione… Cercando sempre il dibattito, rifuggendo la lezione frontale e l’assenso incondizionato. Con la fatica e le turbolenze che questo comporta.
Dal 2010 alla saggistica di Melampo si è affiancata la narrativa, con il marchio Laurana Editore. Che in fondo è un altro modo di dedicarsi agli stessi temi: nella collana Rimmel, quella dedicata alla narrativa italiana, pubblichiamo romanzi che trattino i temi della nostra storia recente, dagli Anni di piombo a Tangentopoli, dalla semplificazione del linguaggio politico all’immigrazione. Convinti che raccontare storie sia un modo per far crescere le esperienze dei lettori, per consegnare loro prospettive ancora più ricche sulla realtà.
Dalla Chiesa
Ho conosciuto Nando dalla Chiesa nel settembre del 1982, proprio poche settimane dopo la tragica uccisione di suo padre, il Generale Carlo Alberto, a Palermo. Debbo confessare, ma a lui non l’ho mai detto, che ero in forte imbarazzo. Io, siciliano, senza alcuna ragione, mi sentivo sulle spalle la vergogna di un popolo.
Partecipavo a una commissione in Bocconi per il diritto allo studio. Io mi trovavo a essere rappresentante degli studenti e lui quello dei docenti.
In verità le nostre strade si erano già incrociate l’anno prima; con lui avevo frequentato il corso di sociologia e con lui avevo sostenuto l’esame, conseguendo un 29 (e ancora, a volte, mi chiedo il trentesimo mancante dove sia finito…).
Ma l’anno della svolta del nostro rapporto è stato il 1984. Quando Nando mi ha chiamato chiedendomi di “dargli una mano per un libro”. Quello che poi è diventato Delitto imperfetto, pubblicato nel 1985, volume capace di chiarire il contesto che rese possibile l’omicidio di Carlo Alberto dalla Chiesa e le responsabilità politiche e morali, ha rappresentato per me, giovane ricercatore e “organizzatore di carte”, di documenti e ritagli di giornali, un momento di crescita e di presa di coscienza fondamentale.
È stato grazie a quell’esperienza che ho capito che ai temi e agli argomenti allora “tradizionali” dell’attività politica studentesca bisognava affiancare, e con forza, i temi della legalità e della lotta alla mafia.
In seguito con lui ho fatto la tesi di laurea, ricordo ancora, prima dell’assegnazione dell’argomento (strategie aziendali) della sua domanda, se avevo letto Il principe di Machiavelli e Della guerra di von Klausewitz. E alla mia risposta negativa, la sua nuova domanda è stata su come pensavo di potermi occupare di strategie senza aver letto e assorbito i classici del pensiero strategico occidentale.
Quando Nando dalla Chiesa, nel 1985, insieme a 100 importanti nomi di milanesi, è stato promotore della nascita del circolo Società civile (vedi voce Società civile), non ho avuto la minima esitazione nel partecipare a un modo nuovo di fare politica.
Ho dato una mano, con affetto e in posizione defilata, nella sua campagna elettorale 1993, quella del Sindaco con i baffi, quando per la prima volta – nel momento di crollo della Prima repubblica e prima del ventennio berlusconiano – dovevamo prendere atto dei devastanti effetti a cui possono portare le convergenze tra gli interessi dei poteri forti e la barbara violenza del leghismo, allora ancora guardato con troppa simpatia anche da gente perbene che credeva che i seguaci di Alberto da Giussano potessero rappresentare la palingesi dopo la tempesta di Tangentoli.
Ci sono stati anni in cui ci siamo persi a volte un po’ di vista, ma le nostre strade hanno finito spesso per incontrarsi, mai per caso e sempre per scelta. Da una chiacchierata natalizia con lui, ad esempio, è nato lo spunto per la nascita di Omicron (vedi voce Omicron), progetto poi varato da me nel 1997 insieme a Gianni Barbacetto e ad altri.
E poi Melampo, l’esaltante avventura (nata nel 2004 da una cena agostana milanese e da chilometriche telefonate nelle settimane seguenti) che ci accomuna nella creazione di una casa editrice di saggistica che è oramai una realtà riconosciuta e di riferimento nell’editoria e nella cultura nazionale per chi è attento alla legalità e ai diritti, alla lotta alla mafia e all’impegno per la giustizia o alla questione morale.
Se amicizia, come ho letto altrove, è condividere una serie di pregiudizi nati da esperienze comuni, io con Nando dalla Chiesa credo di condividere un buon numero di pregiudizi.
Cambiamento
Era il giugno del 1995 quando Roberto Formigoni fu eletto per la prima volta alla guida della Regione Lombardia. Internet stava muovendo i primi passi con i floppy disc della Video On Line di Niki Grauso, editore avventuriero che negli anni seguenti avrebbe attraversato tutti i fronti sempre in maniera turbolenta e infine fallimentare. Tanto per restare in tema tecnologico, Microsoft presentava Windows 95, sistema operativo lanciato con una campagna pubblicitaria senza precedenti. Quell’anno, a Palermo si apriva il processo a Giulio Andreotti. La Juventus aveva vinto il titolo e la stagione seguente l’avrebbe ceduto al Milan.
Un’altra era, un altro mondo. Oggi la rete attraversa l’aria con il wireless e possiamo accedere a internet stando seduti su una panchina in un parco. I quotidiani si leggono sui tablet oppure non si leggono più del tutto. I processi ai politici continuano, anche se molti hanno imparato a seguire il modello berlusconiano: non difendersi nei processi, ma dai processi, con buona pace delle istituzioni del diritto. Infine la Juve è tornata a vincere il campionato dopo qualche anno turbolento, ma si sa, il calcio non mostra evoluzioni, piuttosto corsi e ricorsi.
In ogni caso ci si aspettava dopo vent’anni un’Italia diversa, eppure molti dei protagonisti sono ancora lì. Prendete Roberto Maroni. La prima volta che ha fatto il deputato, contro “Roma ladrona” e i politici di carriera, era nel 1992. Da allora, sempre in nome di “Roma ladrona” e contro i politici di carriera, ha fatto continuativamente il parlamentare, il ministro e oggi prova a fare il presidente della Regione. Sta in un partito dove a un certo punto è emerso fortissimo il bisogno di fare pulizia. Lui che era al vertice ci ha messo un po’ a capirlo. Da ministro ha preteso di andare in televisione per dire che la Lega Nord con la ’ndrangheta non c’entrava. Nel frattempo Francesco Belsito era il tesoriere del partito. Artefice di una gestione di cassa che potremmo elegantemente definire quanto meno disinvolta. E peccato che i fondi di un partito siano soldi dei cittadini.
Con Formigoni la Lega ha condiviso la guida della Lombardia partecipando alla realizzazione di un sistema di potere che nulla ha da invidiare ai metodi di “Roma ladrona”. E oggi si presenta per guidare la Regione in nome del cambiamento.
Ma l’alternanza è un valore fondamentale per la democrazia. Cambiare è necessario perché permette di far entrare in circolazione nuove idee e nuovi uomini, perché nel frattempo il mondo è cambiato e all’appartenenza di partito bisogna sostituire il merito e la capacità, e infine perché con Ambrosoli sono tante le facce nuove che hanno deciso di impegnarsi per questa regione.
Abbiamo visto cosa è successo nel corso del tempo a livello nazionale. Il mitico “fattore K”, la paura del comunismo, dei cosacchi in piazza san Pietro, ha bloccato il normale ricambio di potere generando anche corruzione e malaffare.
In Lombardia un sistema di potere si è sclerotizzato. E ora ne stiamo subendo le conseguenze. Abbiamo però la possibilità di dare una svolta, così come è successo alle elezioni amministrative milanesi con la vittoria di Giuliano Pisapia, in una città che sembrava preclusa al centrosinistra. Mai come oggi ci siamo stati vicini. Mai come oggi è necessario cambiare.
Bocconi
La Bocconi è la Bocconi. E se un giovane ambisce a una laurea economica, l’ateneo milanese è un pensiero inevitabile. Ma se quel ragazzo è un siciliano di provincia, che non può contare su una famiglia facoltosa che lo mantenga agli studi a oltre mille e cinquecento chilometri da casa, in una città già cara di suo, in un’università dalla retta proibitiva?
Ebbene, all’Università Bocconi ho potuto accedere anche grazie alla Regione Lombardia che garantiva borse di studio ai giovani, come me allora, che avevano la volontà di impegnarsi per una formazione adeguata ma non i mezzi economici per affrontarla.
Quella formidabile rete di mobilità sociale, rete poi in larga parte progressivamente smantellata, di sostegni agli studenti meritevoli mi diede una grossa mano nel cogliere questa possibilità.
Mi sono quindi laureato in Economia aziendale, con specializzazione in Finanza aziendale, nel 1986, con una tesi sulle strategie manageriali e sul caso Italtel, relatore Nando dalla Chiesa, un incontro importante nella mia vita.
La Bocconi per me ha significato solidi e impegnativi studi economici, ma ha rappresentato anche la svolta fondamentale della mia vita: il trasferimento a Milano, oramai trent’anni fa. Milano ai miei occhi rappresentava (e rappresenta ancora, per certi aspetti) la città dove tutto c’è e dove tutto può accadere. Per un giovane studente liceale venuto dalla periferia dell’estremo Sud una sorta di Disneyland, insomma.
Col tempo avrei cominciato a capire meglio che anche nel paese dei balocchi qualcosa che non andava c’era, ma questo è un altro discorso.
La Bocconi è stata per me anche il Pensionato Bocconi. Lì ho vissuto i primi miei anni milanesi e lì ho cementato amicizie che durano nel tempo e rimangono tra le più care.
“C’è un angolo di mondo dove centinaia di persone hanno passato molti dei momenti più belli della loro vita. È un angolo di mondo strano. Non vi scorre intorno un fiume, né lo circonda il mare. Il sole vi batte poche settimane l’anno e il vento non vi porta il profumo delle magnolie. Non vi si cucinano aromatici manicaretti né vi si può adagiare su molli triclinii. È arido come le pietre dell’Armenia, grigio come le maglie dell’Alessandria. Ma in tanti lo ricordano con nostalgia, e, se ne parlano, il sorriso che ora smaglia il volto si fa sincero e disteso. È il Pensionato Bocconi, nobile architettura di piccole celle senza cesso per gli studenti dell’università più illustre e vanitosa dei nostri tempi”. Non sono parole mie, le sto rubando (e non vi dico a chi): fotografano esattamente quello che penso.
A volte ricordando gli anni della Bocconi mi viene da dire che io “mi sono iscritto al Pensionato”, come scrive il mio amico Fabrizio De Fabritiis nel suo Trent’anni a Milano.
Per me il periodo dell’università (e del Pensionato) ha rappresentato anche il periodo della maturazione della coscienza e dell’impegno civile. Sono stato a lungo rappresentante degli studenti del Pensionato e mi sono occupato a lungo di diritto allo studio. Tra assemblee e riunioni notturne e domenicali mi sono speso per tutelare gli studenti che avevano bisogno di sostegno per proseguire gli studi. E sempre negli anni dell’università è cominciato il mio impegno nei primi movimenti antimafia degli anni Ottanta.
Un altro incontro fondamentale della mia vita è da collocare lì: un personaggio incredibile, rutilante e rodomontesco, un uomo che ha la dote dell’Eternità. È il direttore del Pensionato di via Bocconi 12, Salvatore Grillo.
Mi scappa da ridere quando sento parlare o leggo dello stereotipo del bocconiano, arido tecnico o cinico super ragioniere: in quei luoghi io ho incontrato alcune delle persone più vere e umane della mia vita.
Ambrosoli
Siamo reduci da un ventennio che ha accantonato la progettualità a favore delle false promesse, che ha sostituito l’impegno con la propaganda, che ha denigrato la professionalità ed elevato l’improvvisazione a metodo per affrontare le questioni.
C’è chi ha fatto tutto questo a livello nazionale urlando, deridendo, imperversando grazie ai (suoi) media. C’è chi l’ha fatto a livello regionale, accogliendo attorno a sé le mezze figure e intanto gestendo il potere fuori dai luoghi deputati. Sia Berlusconi sia Formigoni accomunati da un (dubbio) gusto nell’apparire e nell’esibirsi. Perché vale la pena ripeterlo: contava quello che si vedeva, non quello che si faceva. Che si faceva male, molto male.
I risultati sono ora sotto gli occhi di noi tutti. Al di fuori della cerchia del privilegio, restano solo le conseguenze di una gestione pessima della cosa pubblica.
Umberto Ambrosoli ha un altro stile. È una persona capace, seria, riflessiva. Che ha fatto dell’ascolto e della verifica dei fatti una prassi quotidiana, sia nel suo lavoro di professionista, sia nel suo nuovo ruolo di candidato. Gli viene imputato come una colpa un cognome che evoca un pezzo importante della storia d’Italia. E invece anche questo è, semplicemente, un valore. Che spinge a raccogliere un’eredità. Sapendo bene che raccogliere un’eredità, in questo caso, non può voler dire prendere e mettere da parte, prendere e nascondere al sicuro. Vuol dire tirarsi su le maniche e mettersi al lavoro. Perché in caso contrario l’eredità viene dissipata.
Umberto Ambrosoli, con coerenza, in questi anni ha portato avanti un impegno paziente e costante, fatto di testimonianza civile, di incontri nelle scuole, di piena disponibilità al ragionamento pubblico, soprattutto a favore dei più giovani. In aperta controtendenza con chi vuole apparire, con chi promette di risolvere tutto con la bacchetta magica. Come se fossimo ancora in una grande infanzia incosciente in cui si può credere che le cose vanno a posto in un attimo, basta che lo voglia il mago con i suoi incantesimi, come se non sapessimo – ognuno di noi, nell’esperienza della vita di tutti i giorni – che i risultati arrivano con un lavoro paziente, fatto giorno dopo giorno, con coerenza e impegno. Insomma, avendo un progetto chiaro e poi perseguendolo finché non è arrivato a piena realizzazione.
Viviamo un periodo di confusione e di abbandono di quei valori di dignità e di condotta trasparente che devono tornare a essere presupposti non negoziabili. Umberto Ambrosoli saprà riportare al centro i temi della legalità, del lavoro, dell’onestà e, perché no, del buonsenso. Ed è senz’altro quello che serve per voltare pagina.
Perchè Ambrosoli
Siamo reduci da un ventennio che ha accantonato la progettualità a favore delle false promesse, che ha sostituito l’impegnarsi con la propaganda, che ha denigrato la professionalità e proposto l’improvvisazione come se fosse un modo nuovo di affrontare le cose.
C’è chi ha fatto tutto questo a livello nazionale urlando, deridendo, imperversando grazie ai (suoi) media. C’è chi l’ha fatto a livello regionale accogliendo attorno a sé le mezze figure e intanto gestendo il potere fuori dai luoghi deputati. Sia Berlusconi sia Formigoni accomunati da un (dubbio) gusto nell’apparire, dalla bandana alla giacca canarino. Perché vale la pena ripeterlo: quello che contava era quello che si vedeva, non quello che si faceva.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Al di fuori della cerchia del privilegio resta solo una gestione pessima della cosa pubblica.
Umberto Ambrosoli ha un altro stile. È una persona tranquilla, seria, riflessiva. Che ha fatto dell’ascolto e della verifica dei fatti una prassi quotidiana, sia nel suo lavoro di professionista sia nel suo nuovo ruolo di candidato. Gli viene imputato come una colpa un cognome che evoca un pezzo importante della storia d’Italia. E invece anche questo è, semplicemente, un valore. Perché spinge a raccogliere, a modo proprio, un’eredità. Umberto Ambrosoli in questi anni l’ha fatto con un lavoro paziente e quotidiano di testimonianza, fatto di testimonianza civile, di incontri nelle scuole, di piena disponibilità al ragionamento pubblico, soprattutto a favore dei più giovani. In aperta controtendenza con chi vuole apparire, con chi promette la bacchetta magica.
Viviamo in un periodo di confusione forte e di accantonamento di quei valori di dignità e di condotta trasparente che dovrebbero essere presupposti non negoziabili. Umberto Ambrosoli riporta al centro i temi della legalità, del lavoro, dell’onestà e, perché no, del buonsenso. Non lo fa da oggi, lo fa con un percorso coerente negli anni. Ed è senz’altro quello che serve per voltare pagina.
Perchè Ambrosoli
Siamo reduci da un ventennio che ha accantonato la progettualità a favore delle false promesse, che ha sostituito l’impegnarsi con la propaganda, che ha denigrato la professionalità e proposto l’improvvisazione come se fosse un modo nuovo di affrontare le cose.
C’è chi ha fatto tutto questo a livello nazionale urlando, deridendo, imperversando grazie ai (suoi) media. C’è chi l’ha fatto a livello regionale accogliendo attorno a sé le mezze figure e intanto gestendo il potere fuori dai luoghi deputati. Sia Berlusconi sia Formigoni accomunati da un (dubbio) gusto nell’apparire, dalla bandana alla giacca canarino. Perché vale la pena ripeterlo: quello che contava era quello che si vedeva, non quello che si faceva.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti. Al di fuori della cerchia del privilegio resta solo una gestione pessima della cosa pubblica.
Umberto Ambrosoli ha un altro stile. È una persona tranquilla, seria, riflessiva. Che ha fatto dell’ascolto e della verifica dei fatti una prassi quotidiana, sia nel suo lavoro di professionista sia nel suo nuovo ruolo di candidato. Gli viene imputato come una colpa un cognome che evoca un pezzo importante della storia d’Italia. E invece anche questo è, semplicemente, un valore. Perché spinge a raccogliere, a modo proprio, un’eredità. Umberto Ambrosoli in questi anni l’ha fatto con un lavoro paziente e quotidiano di testimonianza, fatto di testimonianza civile, di incontri nelle scuole, di piena disponibilità al ragionamento pubblico, soprattutto a favore dei più giovani. In aperta controtendenza con chi vuole apparire, con chi promette la bacchetta magica.
Viviamo in un periodo di confusione forte e di accantonamento di quei valori di dignità e di condotta trasparente che dovrebbero essere presupposti non negoziabili. Umberto Ambrosoli riporta al centro i temi della legalità, del lavoro, dell’onestà e, perché no, del buonsenso. Non lo fa da oggi, lo fa con un percorso coerente negli anni. Ed è senz’altro quello che serve per voltare pagina.